Dalla “città ideale”, Urbino, il celebre poeta Umberto Piersanti scrive il suo punto di vista sulle quattro gocce di intervista.
Il poeta è presente con un testo anche nell’antologia “Emilia-Romagna, omaggio in versi e fotografie” da me curata 🙂
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Docente all’università, uomo di mondo, scrittore, ma soprattutto poeta. Dagli anni Sessanta a oggi hai dato alla luce una ventina di libri. Sei passato per editori molto importanti (la collana bianca di Einaudi, per esempio) e oggi torni in libreria con un nuovo testo, di cui parleremo a breve. Quale è stata l’evoluzione del panorama poetico da quando sei “sul mercato”? Cosa ti è piaciuto e cosa avresti evitato volentieri di leggere, negli altri autori?
Ho cominciato a pubblicare nel ’67 quando è uscito il mio primo libro di poesie “La breve stagione” (Ad libitum, Urbino). Il panorama in quegli anni era dominato dalla neoavanguardia, da una ricerca ossessiva sulla forma e sul significante. Si predicava lo stacco tra le “parole” e le “cose”.
I miei punti di riferimento sono stati immediatamente altri. Tralascio le letture giovanili di Lorca e Neruda, che mi servivano soprattutto a cercare di far colpo sulle ragazze, dal momento che tutti i miei amici erano più belli e più ricchi di me.
Era la grande tradizione italiana quella a cui facevo riferimento: una poesia legata al canto, che non temeva emozioni e sentimenti. In particolare Leopardi, Carducci, Pascoli e d’Annunzio erano i miei autori preferiti. In loro ritrovavo una compresenza assoluta tra senso e stile, tra emozione e riflessione. Del primo Novecento ho molto amato Montale e Ungaretti. Del secondo novecento gli autori che più mi hanno coinvolto sono Luzi, Bertolucci, Caproni e Sereni.
Col tempo il panorama letterario è cambiato, già negli anni Settanta finiva il predominio della Neoavanguardia. Da allora il panorama è estremamente variegato e non ci sono indirizzi dominanti, ma gli autori vengono giudicati su di un piano individuale. Tutto quello che ho letto mi è più o meno piaciuto, ma niente è stato inutile. È necessario rapportarsi anche con chi ti è lontano, non per un’astratta forma di dovere, ma per comprendere la complessità delle situazioni e della vita.
A ottobre 2020 esce “Campi d’stinato amore”, edito da La nave di Teseo. So che reputi questo ultimo testo come fra i più importanti (e, leggendolo, si capisce il perché). Fra i tuoi libri, qual è quello che intimamente ti ha soddisfatto di più, e quale, a posteriori, avresti scritto in maniera diversa? Ovviamente, raccontaci anche i motivi.
In Campi d’ostinato amore sono rimasto ostinatamente fedele ai miei temi e al mio mondo. Credo che un autore, per essere veramente tale, deve poter rappresentare una sua weltanschauung e un suo erlebnis che traduco approssimativamente con “percezione emotiva delle cose”. In Campi d’ostinato amore ho raggiunto, o almeno penso di aver raggiunto, una leggerezza che non si ritrae dalla durezza dell’esistere, che affronta le tematiche più complesse e talora dolorose del vivere: il tempo che passa, la scomparsa dei volti cari, l’intensità della memoria. Permane una percezione della natura totale e talora smisurata: essere un poeta di natura non significa ogni tanto nominare qualche albero, ma fare della natura stessa il tema centrale della propria scrittura. Ho una percezione panica del reale, quasi mistica, ma d’un misticismo completamente laico: la dimensione metafisica non è rifiutata, ma tenuta lontano, vista come qualcosa che ti turba e, magari, ti spaventa.
Ogni libro è frutto di un periodo: per quel che mi riguarda, non vado mai a ritoccare né tantomeno a trasformare le opere precedenti. Ci sono libri più o meno riusciti, questo lo penso, ma tutti sono necessari. Tra i miei libri che precedono la trilogia einaudiana, penso che il più bello sia Il tempo differente, il meno riuscito e il più “sincero” L’urlo della mente: non si può raccontare un dolore nel momento in cui questo supera un certo limite. Nella trilogia einaudiana penso che I luoghi persi, che hanno identificato un mito e una patria poetica, siano il libro più importante e significativo. Ritengo anche (e vorrei che fosse scusata la vanità) che i miei libri, a differenza di importanti autori delle mie generazioni, non abbiano mai avuto cadute significative.
I temi principali della tua poetica sono la natura, le emozioni e tuo figlio Jacopo. Come si ripartisce tutto questo nella vita quotidiana? Come stanno cambiando le abitudini e le esigenze (tue e della collettività) in questo particolare periodo di pandemia da Covid19?
La natura è un tema che nasce con il nascere stesso della mia poesia. Direi anche la memoria: avevo più di vent’anni e già parlavo di ricordi quasi ossessivamente. La natura è sempre quella reale, spesso del luogo dove hai aperto gli occhi: e così Urbino, e soprattutto le sue campagne, sono divenute la mia “patria poetica”.
Jacopo ha cambiato il mio modo di stare al mondo: ho sempre vissuto con intenso affetto e impegno. Per molto tempo, però, ho vissuto lontano da lui, alla ricerca d’amore e di vicende. Oggi la sua presenza è quotidiana, meno mitica e fantastica, più concreta e difficoltosa. La sua forma d’autismo è una forma molto grave: si tratta del disturbo pervasivo dello sviluppo, che il tempo peggiora anziché migliorare.
Oggi manca la convivialità: discorsi, cibo, camminare e abbracciarsi e tutto il resto. Per noi scrittori e poeti manca anche il rapporto con il pubblico, il gusto del dibattito, la pienezza del sentire. Noi poeti, in particolare, riusciamo a diffondere le nostre opere solo con il contatto diretto con il pubblico, dato lo scarso interesse per la poesia che si riscontra nella stragrande maggioranza della gente. Sogno di mangiare in una trattoria senza paura delle parole degli altri, senza paura che ci si scambi un bicchiere, senza paura che una mano ti sfiori gli occhi. Sogno un ritorno alla vita vera, che nessuno schermo ci può dare. Ritengo naturalmente che bisogna attenersi a delle regole, che la vita umana valga molto di più dell’economia, che parlare di dittatura sanitaria sia una follia perniciosa.
Raccontaci qualcosa che non hai mai detto al tuo pubblico. Per esempio: una novità, un’ambizione, una bizzarria, un segreto.
Quand’ero piccolo, giocavo spesso con delle bambine che venivano da Roma e passavano l’estate da i loro parenti a Urbino. Una volta una di loro disse all’amica: “chiudi le gambe, che c’è un omo.” Io non ci feci affatto caso. Qualche giorno dopo giocavo a carte con quelle bambine nell’appartamento sopra a casa mia. C’era una ragazza che andava sposa di lì a poco. La madre del futuro sposo, senza accorgersi di noi bambini, alzò la gonna alla ragazza e disse: “che belle cosce domani per mio figlio”. Io le guardai: erano lunghissime, tornite e infiocchettate dalle giarrettiere. Le gambe delle bambine erano secche e simili a quelle dei maschi. Da allora per me quelle lunghe cosce hanno costituito l’elemento di fondo della mia sensualità. Se oggi guardo sfilare in costume le modelle dalle gambe scheletriche, mi sembra proprio (e naturalmente mi sbaglio) che quella forte attrazione che provavamo verso la fisicità femminile sia pressoché scomparsa.
Grazie per la lettura, alla prossima “Gocce d’intervista” con un grande autore in bilico fra romanzi noir e poesia.