Insieme ai tasti del pianoforte, le dita di Ludovico Einaudi hanno carezzato le guance degli spettatori.
Quello di domenica 15/12/2019 al Teatro Dal Verme di Milano è stato un viaggio dolce, in cui la musica ha accompagnato le sensazioni ed i pensieri degli ascoltatori.
Le lunghe suite di Einaudi hanno cullato le variazioni degli stati d’animo dei musicisti ed, indirettamente, del pubblico.
Il bianco e nero delle composizioni all’inizio del concerto si è evoluto nell’evanescenza delle tinte pallide proposte nella seconda metà dello show. Non stiamo parlando solo delle immagini sognanti proiettate sulla scenografia, bensì dei colori interiori che ogni musica ha sprigionato. Alcuni brani avevano la delicatezza di Renoir, altri richiamavano la malinconia di Rothko.
Le composizioni di Einaudi sono state soavi e sempre discrete. Non hanno ecceduto in dinamiche invasive, anzi, si sono lasciate ascoltare nella sobrietà di un sottovoce.
Nell’unica pausa parlata, l’artista ha raccontato la genesi della sua ultima opera. “Seven Days Walking” è un progetto costituito da sette album, pubblicati quest’anno con cadenza mensile dalla primavera all’autunno.
Per ricreare il filo musicale desiderato, il compositore ha effettuato realmente delle «camminate circolari con variazioni». Einaudi ha confidato che «quello che voleva fare con musica lo faceva già con i suoi piedi, semplicemente camminando». La passeggiata musicale di Seven Days Walking è composta da itinerari sonori divisi in tappe. Il tragitto ha permesso ai presenti di immaginare la musica e di riviverla grazie all’esecuzione degli artisti sul palco.
Talvolta, ha raccontato Einaudi, l’ispirazione per i nuovi brani è emersa dopo letture filosofiche – in altri casi, invece, gli stimoli sono state situazioni comuni, come il gustare gli ingredienti di una ricetta in cucina, oppure come il rumore prodotto dalla radio quando si cambia frequenza. La sensibilità di un musicista può arrivare a concepire un brano anche ascoltando un brusio «così come osservando le nuvole si possono vedere una faccia, un animale, o altre forme.»
Nelle due ore abbonati di spettacolo, il pianoforte di Ludovico Einaudi ha cullato note, che, sommate al violino di Federico Mecozzi ed al violoncello di Redi Hasa, hanno creato un mélange avvolgente.
Centinaia di persone abituate a comunicare con messaggi brevi e frequenti si sono concesse una parentesi di silenzio per ascoltare senza frenesia la vita. Per meditare grazie alla musica. Per seguire un percorso interiore.
Il pubblico ha accolto l’assenza del cantato, che di solito monopolizza l’orecchio, e si è dedicato all’essenziale, all’armonia di tre strumenti classici sul palco di un teatro.
(Testo dell’articolo di Giorgio Montanari.
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