Venerdì 24 maggio 2019 a Parma, in un gremito cinema Astra, si è presentata la celeberrima scrittrice Dacia Maraini.
La presentazione del suo ultimo romanzo “Corpo felice” (Rizzoli, 2019) sembra solo un pretesto per parlare della condizione della donna, della sua evoluzione nella società (da “proprietà” dell’uomo fino all’elevazione ad essere pensante) e, nutrendo una tensione visibile nel pubblico, raccontare il difficilissimo periodo della sua infanzia in un campo di concentramento giapponese. La famiglia di Dacia, infatti, si era trasferita nell’isola del Sol Levante per permettere a suo padre, Fosco Maraini, di esercitare la professione di antropologo. Negli anni ’40, con Dacia ancora piccola, la famiglia rifiutò di aderire alla Repubblica di Salò e vennero quindi considerati traditori, finendo in un campo di concentramento. Le condizioni di sopravvivenza erano estreme e la vita della famiglia Maraini, in bilico fra speranza e morte, fu salvata da un atto tanto coraggioso quanto pieno di cultura del padre. Ricordandosi un’antica tradizione nipponica secondo la quale chi si taglia un dito e lo lancia verso il proprio nemico merita di essere ascoltato, Fosco Maraini si amputò un dito della mano e, nonostante il dolore ed il sangue che scorreva, la gettò contro ad una guardia. Dopo le punizioni corporali afflitte agli italiani, i militari asiatici premiarono quel gesto d’onore donando una capretta alla famiglia Maraini. Dacia racconta, quasi ipnotizzando il pubblico, che fu proprio grazie alle vitamine ed al grasso del latte di quell’animale che la scrittrice e i suoi cari sopravvissero alla tragedia di quel campo di concentramento.

(Testo dell’articolo di Giorgio Montanari. Foto di Marianna Salerno.
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