C’ho messo un po’, prima di decidermi a scrivere questo Post.
Nonostante il libro già letto da qualche giorno.
Nonostante le emozioni, nitide, che le parole sono riuscite a lasciarmi addosso.
Nonostante le prime frasi immaginate; nel primo tentativo di riuscire a parlarne.
Avevo cominciato a metterle insieme. A separarle dagli altri pensieri, per riuscire ad avere un testo compiuto. A forgiarle, una dopo l’altra, con la convinzione – ora assurda – che presto avrei potuto dire di “essere a buon punto”.
È bastato un attimo.
Prima un: “No!” Poi, un mal accettato: “C’è qualcosa che non va! C’è qualcosa che manca!”
Come il pizzico di sale in meno, che costringe il sugo a rimanere anonimo. Come il disegno cui serve ancora una pennellata, per potersi dire veramente completo.
La mia testa stava provando a scrivere, ma non stava scrivendo l’articolo che avrei voluto.
Le mie sensazioni erano chiare dentro, ma non abbastanza da riuscire a venir fuori.
Non vestite bene. Non con, addosso, le parole giuste.
Ho lasciato da una parte il computer. Ho cercato di dimenticare gli appunti mentali già fatti. Ho cancellato la convinzione di potercela fare di lì a poco e… sono ripartita da zero.
A posteriori, credo sia stata la cosa migliore da fare. Anche se adesso sono ancora qui a domandarmi quali potranno essere le parole giuste (quelle giuste veramente), per raccontare di questo doppio viaggio tra le pagine.
Forse potrei cominciare col dire che, benché io sia ripartita da libro, la seconda volta l’ho affrontato cominciando dalla fine.
Esistono libri che si possono leggere, partendo dall’ultimissima pagina? Certo che… sì!
“Finzioni di Poesia” di Giorgio Montanari è un libro del genere. Quantomeno, lo è stato per me.
Benché alcune raccolte poetiche seguano fili logici insindacabili, percorsi temporali non modificabili, o trame ineludibili, ce ne sono altre che rimangono “libere” e che si mettono a disposizione del lettore per approcci (anche) alternativi.
Con l’opera prima di Giorgio mi sono divertita a sperimentare.
Mentre il primo incontro, partendo dalla prima pagina, ha fatto nascere in me interrogativi che sono riusciti a trovare una risposta solamente alla fine, il viaggio – fatto al contrario – è stato un modo piacevole per trovare la conferma delle emozioni e delle sensazioni provate d’impatto. Di quei tesori che sono andata scoprendo, tra le righe. Di quei pensieri non miei, che ho trovato – però – essere spaventosamente familiari.
La penna di Giorgio non scrive in rima. Non per questo, però, si concede il lusso di essere una penna poco attenta.
La penna di Giorgio è una penna ricca, a tratti mossa da inquietudine. Spesso spronata da pensieri tanto fugaci, quanto fragili.
Tra i suoi versi riconosco molte delle mie riflessioni solitarie ed è stato questo, forse, a non permettermi una stesura veloce di questo articolo.
Giorgio si mostra attento al mondo intorno a sé, senza però perdere mai d’occhio il proprio universo interiore.
Nella post-fazione le parole dell’amico di una vita, Rocco Rosignoli, lo descrivono ricordando l’adolescente con una “difficoltà paralizzante nell’affrontare l’esistenza di tutti i giorni”. Ciò che li ha fatti sentire simili.
C’è, quindi, il riferimento alla spensieratezza giovanile e al momento in cui, inevitabilmente, questa cede il passo alla consapevolezza dell’età adulta.
“Leggendo le poesie di Giorgio mi sono emozionato”. Io sono d’accordo con lui.
“Spesso ho riconosciuto situazioni, persone, momenti. E laddove non capivo gli eventi a cui la sua scrittura fa riferimento, riconoscevo l’emotività dell’amico, immaginavo il tono della sua voce. E a volte potevo cogliere tra i versi quella sfumatura tragica che lui, quando parla, cerca di non lasciarsi mai sfuggire. Come una sensazione di crollo perenne della realtà interiore, che tante volte gli ho sentito celare con ironia”.
Emotività. Sfumatura tragica. Crollo perenne della realtà interiore. Ironia.
Sia all’andata, che al ritorno, il viaggio per i versi di Giorgio mi ha costretto ad ammettere quanto queste cose, spesso, appartengano anche a me.
Giorgio legge il mondo con occhi di chi non è disposto ad accettare tutto. Giorgio si mette a nudo raccontando il suo modo di vedere; il suo modo di percepire.
C’è, allora, la critica nei confronti di una società sempre più veloce, sempre più tecnologica, ma sempre più povera. “La gente si indebita per l’ultimo modello di I-Pad”, “Bussinessmen a passo svelto, concentrati sullo smartphone”, “Tutti corrono verso lo stress: chi cammina perde”, “Le uniche certezze… Essere nati dalla propria madre ed essere destinati alla propria morte”; scrive in Storie Di Un Impiegato.
C’è il ricordo, dentro i versi dedicati A Nonna Laura. “Insieme al tuo respiro, si esaurisce la mia infanzia”.
C’è l’Autore.
C’è Giorgio, in ogni riga.
C’è Giorgio, in ogni parola.
C’è Giorgio, in ogni sillaba.
C’è Giorgio.
Forse per questo – allora – Giorgio scrive anche al Lettore; così:
“Ti ho autorizzato
a sbirciare
fra gli scritti di una vita.
Mi rincuora l’idea
di offrirti un’emozione.
Mi inquieta
avere esposto
a sconosciuti
pagine salvate negli anni,
figlie di pensieri fragili,
frutto di istanti di ispirazione…
Scrivere è una forma di sensibilità,
è un gioco serio, profondo:
mostrarsi oltre gli ingranaggi
in un imprevedibile equilibrio
dove l’innocenza segue l’esperienza.
Ecco perché,
conscio dei miei limiti,
sto fingendo la poesia”.
Niente da aggiungere.
Alla prossima!
(Giorgio ringrazia di cuore Elisa Vagnarelli.
Info sulla pubblicazione qui: http://www.giorgiomontanari.it/poesia/
Per gentile concessione; testo tratto da: https://obloblog.com/2019/01/13/finzioni-di-poesia-di-giorgio-montanari/ )