Chi non ricorda l’epica scena de l’attimo fuggente dove un Robin Williams, nei panni di un anticonformista professore di lettere, fa strappare le pagine del libro di letteratura?
Penso tutti.
“Comprendere la poesia” si intitolava l’introduzione.
Dopo di che Keating-Williams si adoperava a disegnare il grafico e infine invitava gli studenti a stracciare e gettare nei rifiuti tutto.
E con le parole di Thoreau:
“Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza e in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire in punto di morte che non ero vissuto.”
li invita ad assaggiare la poesia, a nutrirsene, a farla propria.
Vi chiederete perchè io abbia fatto questo preambolo.
È presto detto: ho avuto la fortuna, in quinta elementare, di avere un insegnate di musica (nonostante fossimo in una scuola pubblica) che, oltre ad insegnarci canto (dagli inti-illimani ai canti legati alle mondine) ci faceva ascoltare musica classica chiedendo di disegnare prima e scrivere poi, le immagini che la musica creava in noi. Conobbi e apprezzai in questo modo Ravel, Smetana, Vivaldi ecc.
E mi convinsi che per apprezzare ogni forma di arte occorresse semplicemente lasciarla parlare, fluire in noi. Almeno fino a quando non frequentai il liceo e là mi insegnarono che la poesia non era solo un vaneggiamento del cuore, ma frutto di una ricerca “pensata”. Di un lavoro certosino fatto di metrica, rime e figure retoriche. Che queste tre signore danzavano dal cuore alla mente del poeta per finire poi impresse nei fogli bianchi.
Illuminata da questa nuova esperienza, ogni volta che vedo una poesia sono tentata di sviscerarla, sminuzzarla, triturarla, spremerla per carpire fino all’ultima metonimia. Per capire se realmente il sonetto che mi propongono abbia due quartine e due terzine e i versi siano endecasillabi. Poi prendo il foglio bianco con il conteggio delle dieresi , sineresi sinalefe e dialefe, sineddoche e rime baciate alternate e… butto tutto. E di nuovo:
leggo la poesia, l’assaporo e lascio che fluisca in me. E la prima immagine che vedo è quella buona.
E nelle poesie di Giorgio Montanari io vedo pennellate di parole.
Se il bacio di Klimt potesse parlare
lo farebbe con questi versi
“l’intensità di uno sguardo
il calore di un abbraccio
due voci dolcissime,
su cuori all’unisono
un bacio.
Pochi tratteggi
semplici, mistici,
conquistano una tela nuda,
Come un quadro perfetto, mai realizzato.
Un bacio”
O ecco come lo farebbe la “notte stellata” di Van Gogh
“dalla tavolozza di pensieri,
cerco l’espressione di gesti veri.
Divido il respiro con questa stanza.
Guardo oltre il vuoto e vedo
le stelle,
la notte,
le luci.
Il colore blu
Riflessa
nel cielo la luna;
Il colore blu.
Lo so sono scorretta. Dovrei parlarvi di arte pittorica, dell’impressionismo, dell’espressionismo, di Picasso ( al limite di entrambe le correnti) della secessione viennese e via dicendo. Del cubismo come espressione di una pittura temporale, o del celebre “Urlo di Munch”.
Ma preferisco dipingerlo con le parole del Montanari.
“Non smettere di sognare
La mente
vive
nella notte.
Non smettere di sognare
Si sente
l’urlo dell’inconscio.”
Vi ho parlato di Picasso. Adesso vi illustrerò Guernica
“Dinamite e vetriolo
hanno occhi per guardare
tutto ciò che compie l’uomo
per poi, infine, giudicare.”
Potrei continuare per ogni poesia, ma preferisco che siate voi, con la vostra immaginazione, con i vostri ricordi, con quello che volete a ravvisare nelle poesie di Giorgio Montanari le pennellate di parole, magari contraddicendomi se preferite.
Buona visione.
(grazie ad Alessandra Micheli ed Aurora Stella.
Info sulla pubblicazione qui: http://www.giorgiomontanari.it/poesia/
Per gentile concessione; testo tratto da: https://lesfleursdumal2016.wordpress.com/2018/05/30/finzioni-di-poesia-di-giorgio-montanari-bertoni-editore-a-cura-di-aurora-stella/ )